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martedì 22 ottobre 2013

Come ricomporre il puzzle della p.a. italiana

Ripubblichiamo un intervento di Giovanni Valotti, prof. ordinario di economia delle aziende e delle amministrazioni pubbliche presso il Dipartimento di analisi istituzionale e management pubblico della Bocconi, nonché prorettore per i rapporti istituzionali dell’Università.
Da almeno trent'anni si attuano riforme all'avanguardia  alle quali si sono ispirati anche gli altri paesi, eppure si evidenzia un gap crescente di qualità e livello di efficienza rispetto alle pubbliche amministrazioni dei paesi occidentali più avanzati.

La riforma della pubblica amministrazione è nell'agenda di governo dei paesi industrializzati dagli anni Ottanta.
Trent'anni di storia nei quali l’Italia si è segnalata tra le nazioni più attive e innovative, distinguendosi per numero e rilievo di provvedimenti approvati, che hanno riguardato praticamente tutti gli ambiti di intervento del settore pubblico, dai ministeri agli enti locali, dalla sanità alla scuola, alle imprese di pubblici servizi.
Temi chiave quali il rapporto tra politica e management, le liberalizzazioni, la semplificazione, il contrasto alla corruzione, la meritocrazia, sono stati a più riprese oggetto di importanti provvedimenti normativi, ai quali spesso altri paesi si sono ispirati, come riconoscono studi e analisi internazionali. Eppure, dagli stessi studi, emerge un gap crescente tra la qualità e il livello di efficienza del settore pubblico italiano e quelli dei paesi più avanzati. Sarebbe ingiusto dire che la p.a. non è cambiata o è cambiata solo sulla carta. Vi sono esperienze di successo ed esempi positivi e, nell'insieme, la qualità media è aumentata. Ma non a sufficienza e in modo troppo disomogeneo, tale da evidenziare enormi differenze tra livelli di governo, aree territoriali e singole amministrazioni.
È necessario un cambio di passo.
Ma è possibile? O resteremo prigionieri di dibattiti sempre più sofisticati, grandi annunci e provvedimenti incapaci di produrre un cambiamento reale? Almeno tre sono le condizioni affinché il settore pubblico possa trasformarsi in modo radicale.
Innanzitutto è necessario rendere conveniente il cambiamento.
Le grandi riforme in Italia hanno privilegiato un approccio impositivo e vincolante, scontrandosi con resistenze forti e consolidate, oltre che con l’arte nazionale dell’aggiramento di norme e limiti finanziari.
Debole, per contro, è stato il ragionamento sugli incentivi al cambiamento. E questi dovrebbero essere messi in campo, per le istituzioni, contrapponendo alla logica dei tagli orizzontali quella del premio agli enti virtuosi, per la politica, responsabilizzando gli amministratori sul buon uso delle risorse pubbliche, per i civil servant, valorizzando davvero i meriti e, per i cittadini, riconoscendo i comportamenti virtuosi nell'utilizzo dei servizi pubblici.
Di grande aiuto, su questo piano, potrebbe essere una riforma profonda della disciplina della responsabilità di chi amministra e gestisce la cosa pubblica, premiando chi è capace di produrre valore e penalizzando chi spreca o distoglie risorse dal perseguimento reale dell’interesse pubblico.
In effetti, un secondo aspetto fondamentale riguarda la qualificazione della ruling class.
Gli studi sulla composizione delle élite nel nostro paese ci restituiscono un’immagine impietosa. Difficile pensare di cambiare le organizzazioni in assenza di una leadership, politica e tecnica, forte e illuminata, capace di disegnare un futuro e di darne concreta attuazione. Ma questo richiede un ripensamento radicale delle logiche di selezione della classe politica, dei criteri e delle modalità di accesso alla dirigenza pubblica, delle procedure relative alle nomine negli enti pubblici e all’attribuzione degli incarichi di maggiore responsabilità e prestigio, delle cause e delle modalità di rimozione dalle posizioni di rilievo a fronte di risultati insoddisfacenti.
Infine, serve più management nelle p.a.
I ritardi del nostro paese sono in larga misura riconducibili a gap di attuazione. Alle eccellenze specialistiche e professionali che spesso caratterizzano diversi ambiti dell’intervento pubblico non corrisponde un equivalente sviluppo delle competenze manageriali. Modelli organizzativi e sistemi di gestione obsoleti, combinati con una debole specializzazione di chi dirige le amministrazioni sulla gestione delle risorse, consentono il permanere di una concezione eccessivamente garantista e formale che, ponendosi in evidente contrasto con obiettivi di efficienza, non produce per contro risultati distintivi in chiave di integrità, trasparenza ed equità.
I cambiamenti necessari rimandano a percorsi di sviluppo interni agli enti, anche se di grande aiuto per la piena affermazione di una cultura manageriale potrebbero essere una forte semplificazione normativa, una profonda revisione della disciplina dei controlli e, non da ultimo, investimenti qualificati in formazione di alta qualità.

1 commento:

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